Ricordi del prof. Rocco Buttiglione, filosofo del Papa polacco
Włodzimierz Rędzioch
– Giovanni Paolo II è passato alla storia come Papa che ha messo in ordine i teologi sudamericani. Lei, Professore, ha avuto un ruolo importante in questa vicenda. Potrebbe ricordarcela?
Prof. Rocco Buttiglione
– Dobbiamo partire dai primissimi giorni del pontificato di Giovanni Paolo II. Il Papa, prima di andare in Polonia, era andato in America Latina. Paolo VI aveva preso l’impegno di andare alla III Conferenza dell’Episcopato Latino-americano a Puebla e Giovanni Paolo II ha voluto mantenere questo appuntamento. La III Conferenza era molto importante perché c’è stato in America Latina un grande sviluppo di una sociologia “rebelde” la quale diceva che il continente è sottosviluppato perché i Paesi ricchi d’Occidente gli impongono il sottosviluppo come conseguenza del mercato capitalista. In questa situazione correva molto il detto di Mao: “Contare sulle proprie forze”, allora bisognava uscire dal mercato capitalista e costruire l’economia socialista fuori dal mercato. Sull’onda di questa sociologia si sviluppa una teologia della liberazione. Possiamo dire che come punto di partenza c’è il libro di Gustavo Guttiérez del 1968 “La teologia della liberazione” che viene visto come il risultato del Concilio Vaticano II e della Conferenza dell’Episcopato Latino-americano di Medellin.
– Cosa dice la teologia della liberazione?
– La teologia della liberazione dice che bisogna pensare al messaggio cristiano non in astratto ma nel concreto della situazione esistenziale del povero uomo latino-americano con la sua sofferenza, speranza e cammino della liberazione. La teologia deve annunciare la salvezza eterna ma l’annuncio di Cristo è anche il richiamo a una solidarietà vissuta su questa terra e allora anche la trasformazione di questo mondo per renderlo più umano. Viene detta anche una terza cosa: per pensare la liberazione dentro la storia dell’uomo latino-americano bisogna assumere come strumento il marxismo. Il marxismo ci permette di comprendere il mondo a partire dalla prospettiva del povero. Direi che allora che la teologia della liberazione sta su questi tre pilastri.
– Ma non c’è una sola teologia della liberazione?
– È vero. C’è anche una teologia della liberazione che assume i primi due pilastri, non il terzo. Giovanni Paolo II va a Puebla e dice queste due cose: che l’annuncio cristiano è l’annuncio della liberazione, che questo annuncio non è astratto ma incarnato nella storia di un popolo. E questo viene naturale a Giovanni Paolo II perché lui vedeva la storia della Polonia come la storia della liberazione in cui l’annuncio cristiano s’incarna nella storia del popolo polacco.
–Ma GPII sapeva dall’esperienza polacca che il marxismo non può essere strumento della liberazione…
– Appunto. Perciò come terzo pilastro Wojtyła propone la cultura del povero latino-americano che non è senza cultura. Quest’uomo non è il proletario di Marx ma un povero profondamente segnato dall’evangelizzazione che gli ha dato la dignità e il senso della vita (della nascita, del lavoro, della morte). E questo povero latino-americano conduce la sua lotta per la liberazione – perché c’è la situazione dell’ingiustizia consolidata – dentro l’annuncio cristiano, con un cuore cristiano. Secondo Giovanni Paolo II la teologia della liberazione si deve inserire nella grande tradizione dei grandi evangelizzatori dell’America Latina (Bartolomeo de las Casas, padre Motolina, S. Toribio di Mongrovejo, dei gesuiti che hanno fatto le reduccionesnel Paraguay) la cui storia è la storia della conquista, ma anche dell’evangelizzazione (assurdo leggerla solo come conquista). Allora c’è bisogno della teologia della liberazione ma è la teologia centrata attorno al Cristo liberatore e incarnato nella storia dell’America Latina. C’è bisogno della lotta per la liberazione ma segnata dal rispetto di ogni persona umana e che rifugge la violenza e la lotta armata e allora non è compatibile con la guerriglia. Va ricordato Che Guevara che parlava di “100 fuochi” della guerriglia che hanno provocato tanti colpi di stato in tutta l’America Latina della destra semifascista. Dal 1964, il colpo di stato in Brasile, fino al 1973, colpo di stato in Cile, praticamente tutto il continente passa dai regimi della democrazia debole ai regimi di “sicurezza nazionale”. Le guerriglie hanno la responsabilità enorme nella morte delle democrazie deboli latinoamericane.
Giovanni Paolo II annuncia un’altra teologia della liberazione. E dopo Puebla comincia una lotta accanita e una parte dell’Episcopato latino-americano vede il rifiuto della teologia della liberazione marxista come l’affermazione della necessità di un ritorno all’ordine. E ci sono spinte fortissime affinché la teologia della liberazione venga condannata.
– In questo contesto, nel 1983, nasce l’Istruzione “Libertatis nuntius” della Congregazione della Dottrina della Fede su alcuni aspetti della teologia della liberazione, ispirata da Giovanni Paolo II e preparata dal card. Joseph Ratzinger, Prefetto della Congregazione…
– Sulla base delle richieste di chiarimento dottrinale nasce la prima Istruzione sulla teologia della liberazione. È una messa a punto di una serie di tesi teologiche che la teologia della liberazione usuale non rispetta, ed è centrata sulla condanna del marxismo. Il marxismo non può essere assunto come strumento dell’analisi sociologica perché è una visione sbagliata della persona umana e un metodo scientifico che non è neutro.
– Perché qualche anno più tardi viene preparata la seconda Istruzione?
– L’Istruzione viene percepita come una totale condanna della teologia della liberazione. Ma tale teologia ha accompagnato un grande movimento sociale, decine di migliaia di comunità di base, un’enorme azione caritativa della Chiesa, l’azione in favore dei perseguitati, la pastorale di solidarietà. E sembrava che tutto questo fosse condannato, allora c’è stato un momento di smarrimento nella Chiesa dell’America latina.
Io ho avuto un piccolo ruolo nella preparazione del documento con un gruppo di amici: don Francesco Ricci, Guzmán Carriquiry, Alberto Methol, Lucio Gera, Pedro Morandé. Noi, coordinati da Alberto Methol, capo del comitato degli esperti del CELAM, lavoravamo sulla teologia della liberazione positiva. In questo conteso abbiamo fondato a Montevideo una rivista che si chiamava “Nexo”. Vicino a questa rivista c’era anche un sacerdote gesuita, Jorge Mario Bergoglio, allora rettore del seminario di San Miguel, dopo essere stato per tre anni provinciale dei gesuiti.
– Lei riferiva a Giovanni Paolo II i risultati del vostro lavoro?
– Si. Mi ricordo una volta, dopo il mio viaggi in America Latina, sono stato invitato dal Papa per parlare di questo argomento. Gli ho detto che la teologia della liberazione copre tante cose: c’è una teologia della liberazione del Nicaragua (più teologia della rivoluzione che della liberazione) nella quale la figura di Cristo si è dissolta, non c’è più Dio che libera il popolo, e il popolo che si libera da se (questo tipo di teologia va condannata). Ma c’è un’altra teologia della liberazione che invece è interamente secondo il messaggio evangelico, per esempio è la teologia della liberazione in Argentina (va ricordato che nella storia dell’Argentina c’è un grande movimento dei lavoratori cristiano non marxista): questa va sostenuta e incoraggiata. In mezzo c’è il Brasile e Gustavo Gutiérrez che è equivoco.
Ricordo un fatto curioso: una volta discutevamo con Giovanni Paolo II della teologia della liberazione, di p. Gutiérrez e ad un certo punto il Papa mi chiese: ma lui (p. Gutiérrez) ci crede, dice messa, confessa, prega la Madonna? Io ho risposto di “sì”, allora il Santo Padre disse deciso: “Se è così, non possiamo condannarlo! Dobbiamo parlargli”. Tutto questo ha incoraggiato il Papa a spingere il card. Ratzinger a preparare la seconda Istruzione che chiarisce tante cose.
– Cosa dice in concreto la seconda Istruzione?
– Dice che c’è la teologia della liberazione buona e l’altra cattiva (tutta marxista) ed anche dubbia, che ha degli aspetti sani ma deve purificarsi (Gutiérrez). Mi ricordo che quando GPII andò a Lima un giorno andò a trovare l’ultimo discendente degli Incas per rendere omaggio a questo popolo indio. Quel giorno davanti alla casa di Gutiérrez c’erano tanti giornalisti che lo stimolavano per fargli dire qualcosa contro il Papa. Invece Gutiérrez uscì, si presentò e disse: “Oggi è un giorno di festa per il mio popolo. Lasciate che io vada a fare festa con il mio popolo. Delle altre cose parleremo un’altra volta”. Dopo, Gutiérrez diede delle chiarificazioni necessarie. Una volta ha detto: “La mia teologia va benissimo. Quello che voi criticate nella mia teologia non è indio, ma è tutto quello che ho imparato da voi studiando a Lovanio e a Monaco”. Nei suoi libri successivi, particolarmente nel libro intitolato “Bere al proprio pozzo”, la sua idea della teologia latino-americana si radicalizza, respingendo l’aspetto marxista come una sovrapposizione europea. Poi Gutiérrez è diventato domenicano e penso che adesso la sua teologia si sia perfettamente inquadrata nella seconda Istruzione della Congregazione della Dottrina della Fede.
– Che effetto ha avuto il crollo del blocco comunista sulla teologia della liberazione?
– Molto prima del crollo del blocco comunista, i fatti della Polonia, il sindacato “Solidarnosc”, hanno avuto un grande impatto sull’America Latina. Noi tentavamo di creare un ponte tra “Solidarnosc” e l’America Latina. C’era molto entusiasmo per un movimento operaio, non marxista, ma cristiano e portatore dell’istanza di liberazione. Questa speranza non si è compiuta completamente, neanche in Polonia, ma è servita come un grande stimolo.
Se l’America Latina si è liberata dalle dittature non è stato attraverso la guerriglia: la sinistra rivoluzionaria esce sconfitta, allo stesso modo della destra semifascista. L’America Latina si libera attraverso un grande movimento in difesa dei diritti della persona umana che merita rispetto. È davanti a questo movimento che crollano i generali in Argentina, in Cile, in Brasile. Negli anni del pontificato di Giovanni Paolo II – tra il 1978-89 – non crolla solo il comunismo ma anche tutte le dittature dell’America Latina e altrove.
– Oggi, cosa rimane della teologia della liberazione?
– Della teologia della liberazione marxista, poco. Purtroppo, dopo la sconfitta del marxismo, alcuni teologi, animati dallo spirito ribelle, sono passati dal marxismo all’apologia della società radicale (per esempio, l’adesione al movimento no-global). Ma è rimasta la buona teologia della liberazione, quella indicata da Giovanni Paolo II.
–Secondo Lei, a Papa Francesco piacerebbe essere indicato come teologo della liberazione?
– Non lo so. Ma la teologia della liberazione che nasce dallo spirito di condivisione del destino del povero faceva parte della sua vocazione. Il cristianesimo è unico, ma diverso in vari Paesi. La verità è una, ma i cammini verso la verità sono tanti: c’è anche la via latino-americana (come la via polacca). E tutte insieme fanno la cattolicità.
– Allora la tesi che la scelta del card. Bergoglio a Pontefice è la rivincita della teologia della liberazione su Giovanni Paolo II (Papa polacco e anticomunista) non regge?
– Direi proprio di no. Chi lo dice non ha capito cosa è successo in America Latina, ma neanche in Europa e in Polonia. Papa Wojtyla non era “anti” ma era “per”, per Cristo. Ovviamente doveva condannare la violazione della libertà umana, ma voleva affermare la verità, non distruggere l’avversario. Giovanni Paolo II era contro la lotta di classe, ma per la lotta per la verità nella quale si conta sulla coscienza dell’avversario. Perché anche l’avversario è un uomo che ha una coscienza. Io ribattevo che i comunisti non hanno una coscienza ma lui ripeteva che siamo nelle mani di Dio e che bisogna contare sempre sulla conversione. Il Papa in uno dei suoi messaggi diceva che la violenza ha bisogno della menzogna, invece la lotta per la giustizia ha bisogno della verità. Per questo “Solidarnosc” ha vinto senza violenza (anche si ci è voluto il sangue di p. Jerzy Popiełuszko e tanti altri).